La recente copertina di Panorama si fa portavoce di un tema provocatorio quanto concreto: la “morte” dei social network e l’identificazione dei loro presunti “killer”. Questa affermazione è il risultato di un sondaggio che ci spinge a riflettere sulle dinamiche che guidano le nostre comunicazioni online. Dall’analisi approfondita del settimanale emerge un fenomeno allarmante: l’avanzata silenziosa della passività tra gli utenti dei social network. Questa tendenza segna un distacco preoccupante dallo spirito originale di questi spazi, concepiti come arene per l’interazione attiva, il dialogo aperto e la costruzione di comunità.
Se avete recuperato il numero di Panorama (num. 15/2924), vorrei soffermarmi su un aspetto fondamentale di questa passività: l’avanzata della videocrazia che nei social media rappresenta uno dei cambiamenti più significativi e preoccupanti nel panorama della comunicazione digitale contemporanea. Questo fenomeno di video brevi e facili da consumare che diventano il mezzo dominante nella nostra comunicazione online rappresenta un passaggio fondamentale da partecipante attivo a spettatore passivo, con profonde conseguenze sul modo in cui percepiamo, interagiamo e comprendiamo il mondo che ci circonda.
Conseguenze della passività deli utenti
La natura stessa dei contenuti video sui social media – rapidi, visivamente accattivanti, e concepiti per catturare l’attenzione nell’arco di pochi secondi – favorisce una modalità di consumo che disincentiva l’impegno attivo e critico. Lo scroll infinito attraverso video che si susseguono senza soluzione di continuità alimenta una forma di engagement superficiale, in cui l’utente è costantemente sollecitato a passare al contenuto successivo, senza mai soffermarsi veramente su nulla. Questa tendenza alla passività non è casuale; è il risultato di scelte progettuali deliberate che mirano a massimizzare il tempo trascorso sulla piattaforma, privilegiando la quantità dell’interazione alla sua qualità.
In questo contesto, le dinamiche di interazione si trasformano: il tempo e lo spazio per i commenti riflessivi si riducono, mentre gesti minimali come i “mi piace” e le “reaction emotive” diventano la norma. Questo sistema di feedback istantaneo e poco impegnativo non solo appiattisce la nostra capacità di risposta emotiva e intellettuale, ma svuota anche di significato l’interazione stessa, riducendola a una serie di scambi superficiali privi di sostanza.
Parallelamente, l’ascesa della videocrazia ha marginalizzato la parola scritta, relegando i contenuti testuali – che richiedono una partecipazione più attenta e riflessiva – a un ruolo secondario. Questa perdita è particolarmente grave in quanto i testi scritti offrono spazi unici per l’esplorazione di idee complesse, la costruzione di argomentazioni articolate e lo sviluppo di un dialogo critico.
Inoltre, la lettura stimola una forma di engagement diversa, che invita alla riflessione, all’analisi e alla critica, elementi fondamentali per una partecipazione democratica e informata nella società. Infine, il clima di ostilità che pervade molti spazi online agisce come un deterrente ulteriore alla partecipazione attiva. In un ambiente dove il dissenso è spesso accolto con aggressività, e dove l’interpretazione letterale e la manipolazione delle parole altrui sono strumenti comuni di attacco, gli utenti sono indotti a rifugiarsi in un silenzio cauto o a circondare le proprie opinioni di premesse e preamboli. Questo non solo impoverisce il dibattito pubblico, ma limita anche la nostra capacità di esporre e difendere idee complesse, favorendo una comunicazione sempre più frammentaria e meno autentica.
La risposta di meta alla Videocrazia
Potrebbe sembrare paradossale, ma nonostante il suo crescente investimento nella realtà virtuale, un medium intrinsecamente legato all’audiovisivo, Meta sta avviando nuove strategie che sembrano andare in una direzione sorprendentemente diversa. Questo approccio bifronte suggerisce un tentativo di redenzione (ancora molto timido), o forse di riconquista, di un ethos comunicativo che si era creduto perduto. Mentre da un lato si abbraccia l’immersività totale della VR, dall’altro si sta cercando di ridare valore alla parola scritta e ai contenuti grafici, in una mossa che si distacca dalla dominante videocentrica dei nostri tempi. Un sistema di bonus, ancora in fase di sperimentazione, promette di premiare quelle espressioni che si affidano alla forza evocativa delle parole, che trovano rifugio nella staticità delle immagini scritte, opponendosi alla tirannia dell’audiovisivo che ha dominato incontrastato gli ultimi anni.
Questa mossa, benché possa sembrare un passo verso il recupero di un dialogo più articolato e profondo, solleva interrogativi critici sulla natura stessa delle piattaforme social e sulla loro evoluzione. La scelta tardiva di valorizzare i testi mette in luce una realtà inquietante: l’assolutizzazione del video non era una fatalità, ma una direzione scelta, che ha segnato profondamente il modo in cui percepiamo e interagiamo con il mondo intorno a noi. I video, con la loro immediata presa sensoriale, non possono e non devono diventare i nuovi archivi del sapere umano.
Sin dai tempi antichi, quando i saggi sumeri scrissero i primi pittogrammi su tavolette di argilla, la scrittura ha avuto un profondo effetto sull’umanità. Parole, che inizialmente erano semplici simboli, hanno liberato il nostro pensiero dai limiti del cervello umano e ci hanno permesso di creare strutture sociali, culturali e politiche.
La scrittura nella sua forma “totale” ha la capacità di esprimere pensieri profondi, influenzare gli stati emotivi delle persone e penetrare nei loro ricordi in un modo che le immagini non possono fare. La scrittura è apprezzata per la sua capacità di comunicare idee complesse, accendere l’immaginazione e connettere le persone attraverso esperienze condivise ma profonde. In un’era dove la velocità sovrasta la sostanza, e le distrazioni minacciano il nostro pensiero critico, riscoprire il valore della parola scritta diventa essenziale. È un invito a riconoscere e abbracciare il potere trasformativo della scrittura, ricordandoci come le parole possano veramente contribuire a creare ambienti di sano confronto.
Tuttavia, vorrei sottolineare un’altra cosa: criticare l’enfasi posta in precedenza sul video non significa negare il valore di questa forma di comunicazione, ma piuttosto sottolineare che il video, come ogni altro mezzo, ha i suoi limiti e non può e non deve sostituire completamente altre forme di espressione.
Fame di immediatezza
Per come la vedo io, uno dei problemi principali in questo frenetico e saturo paesaggio digitale, il nemico silenzioso si annida nella disponibilità ubiqua, nei giga illimitati che alimentano incessantemente la nostra fame di immediatezza. Questa costante accessibilità, questo diritto presunto a un collegamento ininterrotto con il mondo, ha innescato un’impazienza collettiva, un’intolleranza verso il tempo della riflessione, la lentezza del pensiero.
Ridateci i 56K
C’è una strana nostalgia, quasi una supplica, per il ritorno ai giorni del modem a 56k, quando il mondo digitale aveva un ritmo che imponeva la pazienza, dove ogni click era intenzionale, ogni pagina caricata un investimento di tempo. In quella lentezza forzata si nascondeva una virtù: il tempo per riflettere durante l’attesa, la possibilità di contemplare anziché consumare in modo compulsivo. Il ritorno a un periodo in cui il senno e la riflessione trovavano spazio tra i bit che viaggiavano con nonchalance attraverso i cavi telefonici.
Ridateci quei 56k non solo come tecnologia, ma come filosofia di vita digitale, gli unici che, forse, possono restituirci il senno, la capacità di stare con noi stessi, di ascoltare e, soprattutto, di pensare prima di scrivere baggianate.