Horror vacui, una locuzione latina che trae origine dall’estetica classica, vibra con inaspettata intensità nella psicologia moderna. Questa espressione evocativa, che indica letteralmente il “terrore del vuoto”, trasfigura la sua essenza da principio decorativo a metafora esistenziale, delineando un panorama in cui l’incessante compulsione al riempimento dei vuoti interni ed esterni riflette la fuga dell’individuo dalla propria solitudine. Ad esempio, l’antica pratica medioevale – in particolare l’arte longobarda, l’arte islamica, fino ad arrivare a Keith Haring – di saturare ogni interstizio con ornamenti, si trasmuta in un parallelo psicologico, dove la perpetua ricerca di stimoli e connessioni virtuali svela una profonda inquietudine verso il vuoto, inteso come assenza, come mancanza.
Nell’ambito della psicologia, l’horror vacui si manifesta come una paura del vuoto, non solo fisico ma anche emotivo. È il terrore silenzioso che si insinua nella mente al pensiero di spazi non riempiti, di momenti di inattività che potrebbero costringerci a confrontarci con il nulla interiore. Questa angoscia, penetra le sfere del tempo e dell’esistenza personale, rivelando una profonda inquietudine nell’animo umano.
Il timore del vuoto, dunque, riflette una fuga dalla solitudine essenziale dell’essere. Ad esempio, la settimana lavorativa, in un’epoca caratterizzata da una frenesia incessante, diventa un microcosmo di questa lotta contro il vuoto. Ogni momento deve essere riempito, ogni intervallo di tempo deve avere uno scopo. Il lavoro, con le sue scadenze e i suoi impegni, offre una distrazione temporanea da questa ansia esistenziale. Tuttavia, è nel weekend, quando l’incessante attività si placa, che l’horror vacui si fa più acuto e si manifesta come la sindrome del fine settimana. Il tempo libero, si trasforma in uno spaventoso mostro che porta con sé la paura di questo vuoto e per combatterlo, si tende a riempire ogni momento con delle attività, nel tentativo di sfuggire al silenzio assordante dell’inerzia.
L’evitamento del vuoto
Gli esperti nel campo della salute mentale, riconoscono come l’iperattività possa essere un sintomo di un disagio più profondo. Non è tanto il desiderio di essere produttivi a spingerci a evitare il vuoto, quanto piuttosto il terrore di ciò che potrebbe emergere in sua assenza. L’incessante bisogno di occupare ogni spazio può essere visto come una difesa contro l’introspezione, contro il confronto con il nucleo più oscuro del nostro essere.
Queste caratteristiche non sono altro che i sintomi della società del rendimento, dove il valore di un individuo è inestricabilmente legato alla sua produttività. Il vuoto, quindi, diventa sinonimo di inutilità, di non essere. In questa cornice, il tanto ‘agognato’ weekend non rappresenta più un’opportunità di riposo e riflessione, ma piuttosto una minaccia all’identità costruita attorno al fare.
Eppure, c’è bellezza nel vuoto. Solo attraverso la sua accettazione che possiamo incontrare l’autenticità del nostro essere. Se solo ci fermassimo a osservare, anche solo per un istante, riconosceremmo che il vuoto ci offre quella grande opportunità di comunicare con le nostre paure e i desideri più profondi. La priorità non è “riempire”, ma il riconoscere e accogliere il vuoto che può portare a una vera comprensione di sé.
Secondo una ricerca pubblicata sul “Journal of Positive Psychology”, l’apprezzamento del tempo libero, praticamente non riempito da attività strutturate, è correlato a una maggiore felicità e benessere psicologico, suggerendo che la capacità di tollerare e persino abbracciare il vuoto può portare a una più profonda soddisfazione personale. Questo contrasta marcatamente con la tendenza, radicata in molti, di vedere il tempo non strutturato come una minaccia alla propria identità e autostima.
L’horror vacui nell’era dell’iperconnessione
Nell’era dell’iperconnessione, l’individuo si trova di fronte a un altro aspetto del vuoto esistenziale, un’assenza che genera un’insaziabile fame emotiva e varie forme di dipendenza. Internet e i social media, con la loro promessa di connessioni immediate e incessanti, emergono come seducenti soluzioni per colmare tale vuoto. Questa apparente soluzione non fa che allontanarci dalla possibilità di un autentico incontro con noi stessi.
L’incessante impulso al riempimento, manifestazione tangibile di un’ansia profonda, si traduce in una tendenza verso l’ossessione e la compulsione, dove l’essere si lancia in una vertiginosa caccia di distrazioni, in un tentativo di sfuggire al proprio vuoto interiore. Questo frenetico accumulo di esperienze e informazioni, che ci incatena allo schermo, diventa un velo che oscura la possibilità di un’autentica introspezione.
Tuttavia, è proprio nella quiete dei momenti non occupati, nei silenzi che spesso ci affrettiamo a riempire, che risiede la chiave per un più profondo autocomprendimento. La vera saggezza non risiede nel colmare gli spazi liberi a tutti i costi, ma dall’abilità di sostare con se stessi, di abitare il vuoto come spazio di potenziale apertura verso una crescita interiore. In questo senso, il silenzio non è assenza, ma terreno fertile per la riflessione e la trasformazione personale.
Letture consigliate per apprezzare l’inazione e gli spazi liberi:
- “Vita contemplativa” di Byung-Chul Han
- “Il diritto di annoiarsi. Darsi il tempo per pensare” di D. Malaguti e A.S. Bombi