“Date ad un uomo una maschera e vi dirà la verità”. La visione profetica di Oscar Wilde trova una risonanza sorprendente nell’era digitale. Le ‘maschere’ di oggi si celano dietro lo schermo dell’anonimato. Questo velo di invisibilità digitale permettono a molti di liberare un flusso di sentimenti negativi e aggressività, che probabilmente resterebbero inespressi di fronte a un confronto diretto.
L’insulto ci accompagna anche nella vita offline, ma…
L’aggressività online è già diventata una patologia sociale di rilievo. Non si tratta di mere divergenze di opinioni – nei commenti lasciati sotto ai post di influencer e/o testate giornalistiche – ma di una manifestazione di sentimenti d’odio che travalicano il contenuto per colpire direttamente l’essere umano dietro lo schermo. Queste parole, intrise di disprezzo, non mirano al dialogo ma alla denigrazione, privando il cyberspazio di quella comunicazione assertiva che potrebbe elevarlo a luogo di scambio costruttivo.
Il fenomeno dei “like” su un commento offensivo
Questi consensi non sono banali, bensì l’eco di un odio collettivo. Una sorta di vomito digitale che innesca una risposta neurologica nell’individuo: la produzione di dopamina. Secondo Anna Lembke, autrice di “Dopamine Nation”, i social media fungono da moderni “aghi ipodermici digitali”, somministrando dosi di dopamina digitali all’utente. Questo neurotrasmettitore, associato al piacere, avvia un ciclo di gratificazione e dipendenza. Il cervello dell’aggressore, come un tossicodipendente, è spinto a formulare nuovi commenti provocatori per replicare quel successo effimero.
Una società frammentata
Per comprendere a fondo questo fenomeno, dobbiamo esaminarne non solo l’aspetto neurologico, ma anche il contesto socio-culturale. In un’epoca di polarizzazione e isolamento, i social media si trasformano in un ambiente favorevole per la proliferazione dell’odio. Non si tratta di un fenomeno isolato, ma il sintomo di una società sempre più frammentata, dove l’anonimato e la distanza virtuale permettono l’espressione di sentimenti altrimenti repressi.
Anche gli algoritmi fanno la loro parte
E non solo dei social media, ma attribuire tutte le colpe alle diverse piattaforme non è etico. Tuttavia, è utile capirne i meccanismi. Gli algoritmi sono progettati per massimizzare l’engagement, per questo tendono a premiare contenuti che generano reazioni intense, perpetuando una spirale di odio, anche se involontaria. Questa dinamica crea una catena di aggressività che si autoalimenta, una spirale discendente che intrappola gli utenti in un vortice di negatività e rabbia.
Cosa ci vuole?
La riscoperta dell’assertività del linguaggio non solo nell’utente, ma anche tra gli influencer. Indipendentemente dalla categoria di appartenenza – influencer, giornalisti, divulgatori, ecc. – che detengono una posizione di visibilità nel cyberspazio si trovano in una posizione unica nel modellare questa narrazione. Non devono militarizzare ulteriormente le proprie community, trasformando l’arsenale dei propri followers’, in cani da caccia da sguinzagliare all’occorrenza.
Nonostante tutto, lo sforzo di creare “contenuti costruttivi” potrebbe non bastare senza educazione e consapevolezza da parte dei singoli individui, poiché non tutti sono disposti a riconoscere l’educazione e il valore nell’opinione contraria alla propria. In questa realtà, gli influencer e gli altri leader digitali possono trovarsi di fronte a un dilemma: perseguire un ideale di comunicazione costruttiva in un mare di dissenso e talvolta di aperta ostilità dovuta a una società online che si frantuma sotto il peso della polarizzazione.
Buffon*, cretin*, idiota…
Sono offese! Sono parole che gli utenti non rivolgono solo ad una classe politica dalla quale si sentono abbandonati… Sono offese che si sentono in diritto di scrivere – e queste sono le meno violente – anche nei confronti di chi si conosce a malapena, tra gli stessi commentatori di un post, oltre che all’autore, indipendentemente dalla figura di rilievo che l’ha pubblicato; rivelano un diritto auto-attribuito alla crudeltà che si nasconde dietro la sicurezza dello schermo.
Al posto dell’insulto, riformula il dissenso
Al posto di ‘incapace’ o ‘ignorante’, sarebbe più opportuno esprimersi in questo modo: ‘Non concordo con te’, ‘La tua opinione mi sembra poco coerente perché…’ Solo con un linguaggio adeguato si potrà intraprendere la strada verso il recupero di una comunità digitale più riflessiva e rispettosa; un ritorno all’ethos del dialogo, dove la diversità di opinioni non si tramuta in ostilità, ma in un fertile terreno di scambio e crescita.
Le parole sono proiettili, non si spara soltanto con un arma da fuoco
Prendo in prestito una strofa della canzone di Fabrizio Moro: “Prima i dire e di giudicare, prova a pensare, pensa che puoi decidere tu! Resta un attimo soltanto, un attimo di più, con la testa fra le mani…” e lontano dalla tastiera! Quando ti senti istigato, respira a fondo e frena il tuo troll interiore; tutti ne abbiamo uno, è qualcosa di primordiale. E ricorda: i ‘like’ non sono punti, non si vince nulla!
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